sindrome di stoccolma
Disagio,  Violenza

Sindrome di Stoccolma: quando l’amore è per il proprio «carnefice»

Cos’è la Sindrome di Stoccolma? Come può un ostaggio innamorarsi del proprio rapitore? Cosa accade realmente? Fino a che punto la mente umana può essere plasmata da situazioni altamente stressanti?

Sono queste le domande che molti di noi si pongono quando vengono a conoscenza di casi in cui persone insospettabili si siano innamorate dei propri carnefici ed abbiano iniziato a condividerne gli scopi di vita.

Purtroppo, in questi casi, quasi quotidianamente arrivano alla nostra attenzione le notizie che riferiscono la perpetrazione di violenza sessuale nelle sue varie forme.

Le violenze sessuali

Tra queste troviamo: la minaccia di stupro, i rapporti sessuali ottenuti tramite la minaccia stessa, la gravidanza imposta, la costrizione alla prostituzione, ad avere rapporti sessuali con terzi e a mettere in atto particolari pratiche sessuali non desiderate.

A livello sociale e personale hanno grande risonanza anche altri comportamenti che appartengono a questa tipologia di violenza, ovvero: le molestie sessuali, quali contatti fisici non desiderati e non concessi che interessano parti del corpo connotate sessualmente, ma anche comportamenti che hanno a che fare con la videoregistrazione di rapporti sessuali contro la propria volontà e con la costrizione a visionare materiale pornografico (Salerno, 2010).

Dunque, nella violenza sessuale l’aggressore non utilizza sempre la forza fisica o le minacce contro la vittima, ma può utilizzare la propria età, fisicità o status sociale per spaventare o manipolare la vittima.

Inoltre questa tipologia di violenza è comune a tutti i gruppi sociali, religiosi, etnici ed economici e sia gli uomini che le donne possono esserne vittime sia in età infantile che in età adulta.

Tra le conseguenze, a breve o lungo termine, di questa tipologia di violenza si possono citare: lesioni fisiche, problematiche sessuali e riproduttive, ripercussioni sulla salute mentale, decessi dovuti a suicidio, infezione da HIV o omicidio, condizionamenti sociali dovuti alla stigmatizzazione della vittima da parte del mondo sociale e della famiglia d’origine.

Sindrome di Stoccolma: analisi e origine

La «Sindrome di Stoccolma», coniata nel 1973 dal criminologo e psicologo Nils Bejerot, indica la catena affettiva che si sviluppa tra l’ostaggio ed il rapitore o, più in generale, tra la vittima e il carnefice, a partire dalla regressione pre-edipica.

Essa sembra essere una risposta automatica al trauma del diventare ostaggio di qualcuno che fa sì che si scatenino dinamiche per cui la vittima decide, spesso inconsciamente, che diventare amica del sequestratore o addirittura innamorarsene possa essere il modo migliore per sopravvivere alla situazione altamente stressante che sta vivendo.

Con questo articolo non si ha la pretesa di affrontare in modo esauriente un argomento di tale spessore, ma quantomeno si tenterà di sollevare quesiti al fine di comprendere che, probabilmente, ciò che in condizioni normali consideriamo assurdo, in situazioni altamente stressanti può accadere a chiunque. Da qui l’esigenza di astenersi dal giudicare la sindrome di Stoccolma, ma di comprendere i meccanismi che la fanno scatenare.

Quali sono le dinamiche

Viene spontaneo interrogarsi su come una persona che ha sempre avuto uno specifico temperamento e determinati valori possa, successivamente alla cattura, rinnegare il passato e stravolgere la propria vita mettendo in atto azioni aggressive o in contrasto con la sua personalità.

Per comprendere meglio lo stato mentale in cui si trova la vittima, bisogna prendere in considerazione alcuni fattori cruciali: lo shock psicologico che segue alla cattura, la disumanizzazione della vittima e la regressione pre-edipica della stessa.

Fortunatamente, se non in presenza di patologie conclamate, nessuno di noi esce di casa al mattino pensando di poter essere rapito o travolto da qualcosa di estremamente pericoloso e questo accade perché, volente o nolente, la nostra mente ha dei punti di riferimento che ci permettono di mettere in atto quotidianamente azioni che si basano su aspettative e routine.

Appare chiaro a tutti che l’essere presi in ostaggio è un evento che mette in una condizione di fortissimo stress la nostra mente e che fa crollare qualunque punto di rifermento presente fino a quel momento. La persona, infatti, è costretta a cambiare la sua condizione ed a vivere in modo repentino il passaggio dall’essere indipendente ad essere dipendente da un solo individuo: il suo rapitore.

Gli step della sindrome

Da quel momento in poi la pianificazione ed il controllo del proprio tempo sfuggono di mano e la vittima del sequestratore può vivere, conseguentemente allo stato di shock, una condizione di paralisi accompagnata da un’agitazione ansiosa che può arrivare fino alla confusione mentale.

In un primo momento non sarà in grado di analizzare ciò che le sta accadendo ma, da subito, la psiche cercherà di stabilire un nuovo equilibrio per sopravvivere all’evento traumatico; per fare ciò, la persona instaurerà una relazione con il proprio rapitore.

La totale dipendenza per qualunque aspetto della vita (mangiare, bere, andare in bagno) condurrà la vittima ad uno stato di regressione infantile (pre-edipico) che le farà vivere una relazione simile a quella che, durante l’infanzia, aveva vissuto con la madre; ciò avrà come diretta conseguenza l’attivazione di comportamenti che tipicamente il bambino ha nei confronti dei suoi genitori, ovvero l’identificazione, l’idealizzazione e l’amore.

La disumanizzazione

Ma c’è di più: la vittima percepisce di essere merce di scambio e di essere dunque disumanizzata dal proprio rapitore e, quindi, inizia a percepirsi come oggetto piuttosto che come essere umano. L’identificazione con il proprio aggressore può avere origine anche da questo vissuto e può essere fomentata dal fatto che, in quei momenti, lui sarà l’unico a poter restituire il valore di persona alla vittima; ciò mediante una vicinanza agevolata dalla condizione di isolamento che entrambi, vittima e carnefice, sono costretti a vivere.

Infine, il sentimento di impotenza che la vittima sviluppa in relazione all’impossibilità di fuggire, contribuisce all’emergere della tentazione di collaborare con il proprio aggressore.

Perché, in fondo, percepirsi protagonisti delle proprie azioni è sempre meglio che sentirsi vittime inermi.

Foto tratta da larosanera.it

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Riferimenti bibliografici:

Strano M., 2003. Manuale di criminologia clinica. Firenze: SEE Editrice.

Post tratto da un mio articolo pubblicato nel Giornale on line Link Sicilia:

Dott.ssa Claudia Corbari - Psicologa e Psicoterapeuta a Palermo e online - Ansia, Stress, Depressione, Problemi relazionali? Effettuo CONSULENZE, SOSTEGNO e TERAPIE individuali, di coppia e familiari. Visita il sito!

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